Dis-eguaglianza



Un uomo era proteso in avanti. Rideva o esibiva la sua serietà.

Un altro uomo era schermato nel suo desiderio. Rideva o esibiva una sua serietà. Ma non rideva davvero. Non conosceva i suoi turbamenti.

Davanti all’uomo schermato provavo disagio, coglievo l’angolo della bocca, l’incertezza di fondo, l’oscurità profonda. Avrei voluto ignorarlo. Non guardarlo neppure. Ma era lì. La sua disperazione dipendeva da noi. Poteva esplodere in ogni momento. Ma ero io che dovevo tenerlo in equilibrio.

Il primo uomo semplicemente era, era in sé. Poteva rider del primo, o imprevedibilmente ascoltarlo, ma non avrebbe rinunciato a se stesso.

Io ero me stesso perché avevo davanti l’uomo in sé, ma non potevo ignorare chi tremava e temeva per la sua stessa esistenza.

L’avevo visto altre volte. Avevo colto la sua violenza selvaggia, la sua libertà di primeggiare, la sua sicurezza, la fierezza delle sue risa, la determinazione della sua volontà, la perfezione della sua esistenza.
Di fronte all’esistere del primo uomo, alla sua semplice esibizione, al sadismo della sua libertà, aveva sentito vacillare il nucleo profondo di sé, era diventato un uomo dal desiderio schermato, un uomo che trema sull’orlo del precipizio.

Non potevo ignorarlo. Avevo scorto una delle possibili promesse della vita, nella sua fierezza, nella sua esuberanza.
Nella sua incertezza scorgevo il tradimento, mi si rivelava l’ingiustizia universale, l’impossibilità d’essere della pluralità, l’ineguaglianza assoluta, il soffocamento della speranza, l’inutilità di qualunque lotta.

L’ultima fatica fu pagare il caffè. Ero l’unico che potesse farlo. L’uomo incerto non ne aveva la forza, l’uomo in avanti ignorava semplicemente il problema. Feci in modo che nessuno dovesse accompagnare nessuno. Ci salutammo appena fuori del bar.

Fu un commiato equilibrato. In equilibrio.

Sulla punta della spada.